«Dopo il liceo, probabilmente voglio fare medicina».
Molto del racconto di Marco (nome di fantasia) è raccolto in questa frase. O perlomeno, le parti importanti della sua storia. Perché è una frase che guarda al futuro, e perché lui, negli ospedali, già ha passato parecchio tempo.
Ha 18 anni, fa il liceo scientifico, gli piace il padel. Si esprime in modo articolato e sceglie con cura le parole, specialmente quando parla di sé. Quattro anni fa, in terza media, ha tentato di togliersi la vita. Dopo due ricoveri in periodi diversi, e anche grazie al supporto della psicoterapia, oggi ha lasciato quel momento alle sue spalle.
Partiamo dall’inizio. Come sei arrivato a quella decisione?
«È stata una somma di eventi. Quando fai quel gesto, non sei completamente consapevole. All’apparenza è stata una semplice discussione con mia sorella. In realtà, c’era dietro una situazione di stress estremo.
Già due anni prima, in prima media, avevo chiesto di vedere una psicologa. Ma non avevo sfruttato appieno quell’occasione, tanto che dopo un anno e mezzo avevo deciso di smettere.
In più, da alcuni mesi i miei genitori si erano separati, dopo anni di tensioni. L’esame di terza media mi stava facendo accumulare ansia, ho sempre avuto un po’ una mania di perfezionismo. E c’erano anche altri “campanelli d’allarme”, per così dire…»
Cioè?
«Due mesi prima, verso Natale, avevo avuto un crollo fisico. Che poi alla fine nascondeva un crollo psicologico. Ho iniziato a perdere peso, mi capitava spesso di star male, di vomitare. Stavo male. Ma ho voluto fare finta di nulla, mi sono chiuso sempre di più. Ho saltato quasi un mese di scuola, ci andavo sporadicamente anche perché passavo molto tempo in ospedale per gli esami. Cercavano di capire l’origine del mio crollo, ma non veniva fuori nulla».
Perché il problema non era solo nel fisico…
«No. I miei rapporti umani erano ridotti al minimo, passavo le giornate chiuso in camera, buttato sul letto. Non sentivo molto la presenza degli altri, era una situazione “scura”. Avevo smesso di prendermi cura di me, mi trascuravo e avevo questa grossa malinconia, tristezza, un po’ come se la vita non avesse più colori, proprio».
E quindi, dopo tutti questi “campanelli d’allarme”, come li hai chiamati, arriva il momento in cui tenti di toglierti la vita.
«Sì, come ho detto, è stato un momento in cui non ero consapevole di cosa stavo facendo. Mia sorella mi ha bloccato, io continuavo ma lei mi ha bloccato e ha chiamato il 118. Io mi sono calmato, ma non ricordo i dettagli. Dopo qualche giorno in Pronto soccorso, sono stato ricoverato nel reparto di neuropsichiatria».
A quel punto, nel febbraio del 2018, è partito il tuo percorso di terapia. Com’è stato all’inizio?
«Il primo mese è stato duro. La cosa importante è stata fare chiarezza, scomporre i problemi. Dovevo accettare la condizione in cui mi trovavo: non potevo più nascondere la testa sotto la sabbia, dovevo conoscere anche quei tratti del mio carattere e quelle fragilità che non mi piacevano.
Però, alla fine mi ha aiutato. Il ricovero è durato fino a maggio del 2018, poi è arrivato un periodo di alti e bassi. L’esame di terza media è andato alla grande, ma questo non è stato un bene: per prepararlo mi sono caricato di stress, ho avuto delle ricadute, mi ha confermato in certo senso che avevo ‘bisogno’ di controllare tutto.
Pensavo di aver risolto, e invece è un percorso graduale. Avevo molti attacchi di panico – per quelli non c’è una medicina che li fa passare, bisogna imparare a gestirli -, mi capitava di avere gravi difficoltà proprio a respirare, mi prendeva questa ansia improvvisa. Adesso ormai è da 3 anni che non mi capita più. È un processo, inizi a riconoscere quando arrivano e a bloccare la fase acuta in cui il corpo reagisce allo stress.
Anche per quanto riguarda la mia mania di perfezionismo e controllo, non è che un giorno mi sono svegliato e ho pensato: “Ma sì, accetto anche un 4 a scuola”. È, anche questo, un percorso: parte molto dal singolo e ci sono ricadute.
Infatti, a ottobre 2018 ho avuto un altro ricovero. È stato più breve, avevo cambiato farmaci e introdotto un antidepressivo. Ma dovevo solo limare certi aspetti, è stato meno complicato. In quelle settimane avevo iniziato le superiori e arrivare in un ambiente completamente nuovo non ha aiutato».
A questo punto, superati i due ricoveri, com’è cambiato il tuo rapporto con l’ospedale?
«Dopo essere stato dimesso nel 2018, seguivo solo una volta alla settimana la scuola ospedaliera in day hospital. Preferivo andare il più possibile in presenza, riprendere un po’ il contatto umano. L’esigenza che avvertivo era di staccare completamente dall’ospedale, se non giusto le visite, di cui avevo bisogno. Dovevo riprendermi un po’ di quello che avevo lasciato da parte in quell’anno.
Dall’anno dopo ho deciso di cambiare scuola. Volevo un altro percorso di studi, ma non solo. Ho incontrato una classe in cui mi trovavo meglio, anche perché c’erano già mie amiche e amici che conoscevo da tempo. Lì ho potuto ricostruirmi una “reputazione”, per così dire».
Nel 2019 quindi le cose vanno migliorando. Scuola nuova, puoi ‘ripartire da zero’ con il supporto di amici e amiche che conosci. Poi, però, arrivano la pandemia e il lockdown. Che periodo è stato?
«Guarda, sarà strano, ma per me ha avuto un impatto positivo. La psicologa che mi segue era preoccupata che questa interruzione forzata mi portasse a una ricaduta, ma per me è stata un’occasione di stringere rapporti più profondi. Con mia madre e mia sorella, in particolare, restare in casa a condividere anche gli hobby più banali è stata una bella occasione. Con i miei amici veri ci sentivamo tutti i giorni per studiare o fare altro, anche i professori sono stati disponibili.
Soprattutto, per me è stata una conferma: “Sì, ce la posso fare, non sono più legato all’ospedale. Ho la mia vita e ha delle basi solide, che un lockdown non può spezzare”.
Nel lockdown c’è anche stato il momento, di svolta, in cui sono riuscito ad ammettere, sia con me stesso che con i miei genitori, di essere omosessuale».
Quindi hai fatto coming out nel periodo in cui eravate chiusi in casa?
«Esatto. Sicuramente il fatto di avere una vita sociale più tranquilla da quando ho cambiato scuola mi ha dato la possibilità di non concentrare le sedute psicologiche sulla scuola, ma di poter lavorare su me stesso. Essere omosessuale è una parte importante di me, è stato un peso che mi sono sempre portato dietro. È anche il motivo per cui ho iniziato ad andare in psicoterapia in prima media, perché ero stato etichettato un po’ come “r*****one” e non riuscivo a spiegarmelo.
L’ho detto ai miei amici prima del lockdown. A mia madre e mia sorella l’ho detto quando ci siamo avvicinati di più, come dicevo, grazie alla chiusura in casa.
Il coming out è stato un po’ la conclusione del ricovero vero e proprio, non solo il ricovero fisico in ospedale, ma tutta la fase che è continuata dopo. Era il pezzo finale che mi portavo dietro e dovevo accettare».
La tua situazione non è molto diversa da quella che tantissime e tantissimi giovani vivono ogni giorno. Cosa ti sentiresti di consigliare loro?
«Conosco quelle circostanze: sentirsi un po’ diverso, sbagliato, non riuscire a comprendere cosa stia succedendo. Quello che servirebbe sono esempi, esperienze di coetanei che stanno convivendo con lo stesso problema. Sentirsi compresi, innanzitutto. Non la comprensione che arriva da un genitore. Spesso sento un tono da “ma sì, cosa vuoi che sia, è successo a tutti”, mentre credo che quel ragazzo o quella ragazza che si trova in una situazione come la mia abbia bisogno di una comprensione vera, sincera, genuina.
Da parte sua, deve impegnarsi a parlare. Mi infastidisce quando, nei casi di giovani che arrivano a gesti estremi e muoiono, si dà la colpa alle persone che circondavano la loro vita, perché non sono stati in grado di sentire i campanelli di allarme.
Io, conoscendomi, ho visto che nessuno se n’è accorto, anche perché non è che tutti hanno un manuale per riconoscere i sintomi della depressione… Perciò davvero dovrebbe attivarsi il ragazzo stesso, che non è affatto semplice. Ne parlo ora, ma non sono stato in grado di farlo neanche io: quindi non mi sento di giudicare.
Anche a partire dai social, o dalla scuola. Non so come il me di quattro anni fa avrebbe reagito, ci fossero stati racconti o esperienze di altri ragazzi, o articoli su depressione, disturbi del comportamento alimentare o attacchi di panico. Ma erano cose che vivevo e in cui non capivo cosa mi succedesse, mi spaventavano. Quello sarebbe stato un inizio».
Sono passati quattro anni, da quel febbraio 2018. Hai attraversato un percorso lungo e complicato. Guardando indietro ora, come vedi la tua storia?
«Rispetto a qualche anno fa mi sento molto più tranquillo a parlarne. Non è una di quelle cose che condivido facilmente, sono poche le persone che ne sono a conoscenza, però non la considero qualcosa che mi etichetta. È la società che non è ancora aperta rispetto a questi temi.
Non lo vedo come un punto di debolezza, ecco. Non voglio dire che sia un punto di forza in sé, la forza sta nel fatto di essere uscito da questa situazione, aver compreso come io funzioni. È successo a me, sarebbe potuto succedere a chiunque.
C’è solo un aspetto che mi porto dietro: il senso di colpa di aver fatto soffrire i miei familiari, i miei amici. Soprattutto mia sorella, che è stata alla fine la vera protagonista del gesto che ho compiuto, che ha dovuto bloccare suo fratello. E poi è rimasta un po’ trascurata in quel periodo, col fatto che i miei genitori erano spesso in ospedale durante gli orari di visita. Anche questo è un percorso, comunque. Lo sento molto meno rispetto a qualche anno fa. Mi rendo conto che c’era un malessere che coinvolgeva tutto il nucleo familiare, e io sono stato semplicemente quello che ha assorbito il tutto e non è stato in grado di trattenerlo.
Perciò sì, alla fine, secondo me, la mia storia è quella di un’esperienza positiva».
Perciò sì, alla fine, secondo me, la mia storia è quella di un’esperienza positiva”.
Luca Pons
7 settembre 2022