«Davanti a un caso di suicidio un giornalista non può improvvisarsi. Se non è preparato, commetterà degli sbagli, anche se è in buona fede». Per Carlo Bartoli, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, raccontare in modo corretto il fenomeno dei suicidi è possibile a patto che ci sia una seria formazione del giornalista. Proprio la comunicazione del suicidio è al centro del suo libro L’Ultimo Tabù – Giornalisti, blogger e utenti dei social media alle prese con il suicidio.
Ogni anno muoiono di suicidio 4mila persone in Italia e oltre 700mila nel mondo. Bartoli racconta lo «stigma» che ancora oggi grava sul fenomeno e che condiziona la sua comunicazione. Si lega all’incapacità di fare i conti con il dolore, che riguarda tanto il pubblico quanto i giornalisti. Toni sensazionalistici, informazioni pericolose e nessi di causa-effetto non dimostrabili sono gli errori più comuni nei lavori giornalistici sul tema. Il rischio è l’Effetto Werther, un fenomeno emulativo che può colpire i soggetti fragili, causato da una eccessiva visibilità mediatica data ai casi di suicidio. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha validato l’ipotesi che l’Effetto Werther sia reale con oltre cinquanta studi.
Carlo Bartoli, lei ha raccolto in un libro diverse indicazioni su come raccontare i casi di suicidio. Vengono dalle carte deontologiche italiane e di altri Paesi e dai documenti dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Quale è il modo giusto per raccontare un suicidio?
Non esiste una maniera in assoluto giusta, occorre verificare di volta in volta quali siano le modalità più opportune. Ci sono molte linee guida e alcune regole valide sempre. Una su tutte: mai scrivere che si tratta di suicidio quando non si è certi che lo sia. Questo a volte succede, ad esempio, quando il traffico ferroviario si ferma perché una persona viene investita da un treno. Si dà per scontato che sia un suicidio, ma non sempre è vero, ci sono anche gli incidenti. Accreditare una tesi senza averne una conferma è molto grave. Altri errori assolutamente da evitare riguardano l’uso delle fotografie, i titoli, la semplificazione delle spiegazioni, l’indicazione dei luoghi e delle modalità di esecuzione. Il giornalista deve acquisire tutte le informazioni ma poi deve sapere quali corrispondono ai criteri di diritto all’informazione e di essenzialità della notizia. A volte si parla di suicidio e si racconta anche della famiglia del morto e di solito questo non rientra nel canone di essenzialità. I modi di raccontare variano anche se il suicidio riguarda un personaggio famoso, se è un dramma della solitudine, se è qualcosa che avviene in pubblico o nel chiuso di una stanza. Ovviamente tutto questo ha un limite nel fatto: se avviene in piazza, in mezzo alla gente, è impossibile evitare di raccontare dove e come si è svolto. Il compito del giornalista è sempre adattare il racconto al fatto specifico.
Come si decide se una notizia di suicidio o presunto suicidio è da raccontare?
Io credo che gli episodi di suicidio vadano raccontati, ma non è giusto basarsi sempre e solo su singoli fatti. Non ho ricordi di inchieste sul fenomeno: quanti sono i suicidi? Perché avvengono? Quali sono le ripercussioni sulla società? È la seconda causa di morte nelle giovani generazioni in Europa, non è una scelta di narrazione banale. In questo senso, scrivere del suicidio alimenta una consapevolezza importante nell’opinione pubblica. Il giornalista non deve proteggere il lettore, ma deve sempre avere senso di responsabilità verso quello che sta facendo e deve sapere gli effetti di ciò che pubblica. Ci sono delle tutele su ciò che non va scritto ma anche delle indicazioni su ciò che invece può essere indicato. Ad esempio, negli articoli si possono scrivere i numeri verdi di associazioni e enti a cui una persona in difficoltà può rivolgersi. In questi casi non viene meno la terzietà del cronista, anzi, c’è un’esaltazione del nostro ruolo. Il giornalista ha una rilevanza sociale che non possiamo disconoscere noi per primi.
Negli ultimi anni stiamo vivendo una trasformazione del modo di fare cronaca. L’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul giornalismo di Agcom segnala il sovrautilizzo dei giornalisti nelle redazioni, soprattutto digitali: si produce di più, in tempi sempre più brevi. Come impatta questa trasformazione sul modo di comunicare i casi di suicidio?
Questa deriva purtroppo è forte e reale e influenza la qualità dei contenuti. Ma nel racconto dei suicidi non ha avuto un effetto così importante. Da sempre l’informazione su questo fenomeno è fatta in maniera criticabile: non si verifica bene, fino in fondo, se è un caso di suicidio, si danno informazioni ridondanti e certe volte anche pericolose, si stabiliscono nessi causa-effetto non dimostrabili, si comunica solo con casi singoli e non con inchieste. Ma è così da sempre, anche perché grava un tabù su tutta questa materia che impedisce al cittadino di affrontare in maniera consapevole il fenomeno.
Questo stigma è proprio al centro del suo libro. Il suicidio fa paura e c’è una difficoltà ad accettare il dolore come qualcosa di umano. Il giornalista, che ha la responsabilità del racconto, come può cambiare atteggiamento?
Ritengo che il giornalista non si differenzi dal comune cittadino: vive questo tabù, e anche con grande disagio. Quello che può fare è formarsi perché davanti a un caso di suicidio non c’è il tempo di interrogarsi su quale sia la strategia migliore di racconto. È fondamentale che una serie di conoscenze e consapevolezze siano già acquisite. Questo bagaglio poi si adatta al singolo caso, ma pensare di improvvisare su un tema così delicato porta a commettere degli sbagli, inevitabilmente, anche in buona fede.
Un altro cambiamento di questo tempo è l’uso dei social. Nel suo libro racconta un caso di un suicidio trasmesso in diretta su Periscope. In casi come questo, quale può essere la funzione dei media più tradizionali?
Mantengono il ruolo fondamentale di completamento della notizia, i loro compiti sono la creazione del contesto e la verifica accurata dei fatti. Quello che vediamo in presa diretta su un social non ci dà una rappresentazione esatta di ciò che sta avvenendo, c’è bisogno di capire che cosa è successo veramente. Ecco, lì entra in gioco in maniera molto forte il ruolo dei media tradizionali.
Lei ha una lunga esperienza alle spalle anche come cronista. Cosa l’ha spinta a spendersi per questo tema?
Uno dei primi casi di cronaca nera di cui mi sono dovuto occupare, molti anni fa, è stato proprio un suicidio. Mi aveva provocato un malessere e una sofferenza molto forti, anche perché ero entrato in contatto con le persone coinvolte. Poi, da presidente dell’Ordine regionale della Toscana, mi sono dovuto occupare di diverse narrazioni di casi di suicido fatte in maniera non corretta. Uno su tutti: era avvenuto un tentato suicidio che non si era concluso con la morte e un giornalista aveva fornito le generalità del soggetto. A quel punto è nata l’esigenza di farmi un’idea più compiuta e chiara del fenomeno, per mettere un freno a certe situazioni. Ho letto le carte deontologiche di diversi Paesi, i documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, poi ho approfondito alcuni casi-simbolo. L’ultimo passo è stato capire che impatto ha questo fenomeno nella nostra vita, per andare alla radice dello stigma che ancora c’è.
Ha visto qualche miglioramento negli ultimi anni?
Io vedo andamenti altalenanti. Se si intensifica l’azione di enti e associazioni e dell’Ordine dei giornalisti, si ha un’attenuazione degli aspetti distorsivi. Quando invece si allenta questa azione, purtroppo si torna a una narrazione non corretta.
Chiara Vitali
1 marzo 2022