Costruire una verità, ricostruire una verità. Una costante per un giornalista, un’inedita necessità per chi tenta di superare un momento drammatico della propria crescita. Difficile, quasi impossibile, ricondurre i due impegni alla stessa realtà dei fatti. Quando ci si trova di fronte a un episodio di tentato suicidio di un adolescente, occorre tenere a mente che una verità univoca probabilmente non esiste, o, in ogni caso, è custodita nella mente del ragazzo che avrà bisogno di raccontarla per riconquistare ciò che aveva perso.
L’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino è uno dei più noti e importanti centri in Italia per quanto riguarda la neuropsichiatria infantile. Qui tutti i giorni il personale sanitario si prende cura dei ragazzi la cui disperazione è troppo grande per non gridarla al mondo, il cui disagio tanto insopportabile da provare a farlo cessare per sempre. Una situazione che il Covid non ha fatto altro che rendere più pesante.
In quest’ottica, la comunicazione ha un ruolo molto delicato. “I ragazzi – spiega la dottoressa Chiara Baietto, neuropsichiatra del Regina Margherita – sono influenzati da quello che si scrive o si dice, esiste un problema di emulazione. Il rischio è che un’informazione poco sobria possa generare un effetto domino”. Sovente gli adolescenti che attraversano momenti particolari mancano degli strumenti necessari per analizzare nel modo corretto ciò che avviene intorno a loro: su social network e chat rimbalzano video, immagini, articoli, un sottobosco in cui il tema del suicidio assume una mistica pericolosa.
Si parte dai piccoli atti di autolesionismo, si arriva al gesto estremo. Un percorso di graduale normalizzazione del dolore che si alimenta anche grazie a esempi esterni. Lo conferma anche la dott.ssa Antonella Anichini, che al Regina Margherita si occupa del day hospital psichiatrico, centro che segue i ragazzi nella fase post ricovero: “Assistiamo a situazioni per cui tendenze suicidali sono vissute come gesti eroici, coraggiosi, e in questo senso articoli troppo sensazionalistici possono avere effetti negativi”, spiega. Gli stessi che talvolta provocano durante la riabilitazione: un punto cruciale è infatti il reinserimento nella socialità: per il ragazzo, un momento delicatissimo.
Tornare tra ambienti e volti che direttamente o indirettamente lo hanno spinto al tentativo di togliersi la vita richiede uno sforzo indicibile, reso ancora maggiore dal dominio pubblico che ha assunto la notizia. “Chi si è reso protagonista di un gesto simile – sottolinea Baietto – ha bisogno di scegliere in prima persona che cosa dire e a chi. Il ragazzo deve essere lasciato libero di costruire la sua verità attorno alle circostanze che lo hanno portato a quel comportamento, e il trovare una ricostruzione dei fatti già imposta dai mezzi di comunicazione è una difficoltà in più”. Quello che esce sui giornali impone una verità agli occhi di famiglia, amici e insegnanti, una verità che nemmeno il ragazzo stesso è in grado di scalfire, costringendolo in una narrazione magari inesatta, incompleta di quanto accaduto e, in ogni caso, non sua.
La notizia finisce dunque per appropriarsi della dimensione più intima del soggetto, occupando uno spazio fondamentale nel percorso di recupero. “Esistono sempre delle cause che portano all’episodio suicidale. Il punto è che è riduttivo, inutile a dannoso individuarne una”, prosegue Anichini.
Meglio allora non ricercare a tutti i costi certezze laddove non ce ne possono essere, e magari utilizzare il singolo episodio come spunto per affrontare il tema con l’obiettivo di sensibilizzare riguardo le difficoltà sempre maggiori che incontrano i ragazzi.
Bullismo, disturbi dell’alimentazione, richiesta prestazionale sono i principali problemi che oggi si trovano ad affrontare gli adolescenti. Spesso nei territori mancano strumenti e strutture adeguate per intercettare le situazioni a rischio, e i ragazzi rimangono soli con i propri fantasmi. “Nella maggior parte dei casi – spiega ancora Baietto – il tentativo di suicidio non va inteso come desiderio di togliersi la vita, ma come ultimo e disperato grido d’aiuto”. Famiglie e scuole fanno fatica a intercettare le esigenze e favorire il dialogo. In quella fascia d’età la vita richiede scelte continue, e sono venute meno le forme di collettività. La solitudine è la deriva naturale, conclude Baietto: “Serve qualcuno a cui poter dire ‘sto male’. E spesso non c’è”.
Edoardo Di Salvo
15 marzo 2022