Dalla realizzazione di sé alla realizzazione delle aspettative su di sé, maturate già dall’infanzia. L’età dell’adolescenza è cambiata e con essa sono cambiati anche le situazioni di disagio, che possono condurre gli adolescenti fino a crisi radicali. Comprendere questa trasformazione diventa indispensabile per analizzare il fenomeno senza banalizzarlo o relegarlo alla sola vicenda di cronaca. Il dottor Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, analizza la complessità del contesto in cui si collocano, oggi, la fatica degli adolescenti e i casi di suicidio.
Dottor Lancini, in una sua pubblicazione ha parlato di “dolore evolutivo” degli adolescenti. Quali disagi affrontano oggi gli adolescenti che li possono spingere fino ad agiti violenti e autolesionistici?
Negli ultimi anni, il disagio adolescenziale si manifesta principalmente con un attacco rivolto al proprio corpo che si traduce in gesti autolesionistici, nel disturbo della condotta alimentare e nel ritiro sociale, oltre che, in casi estremi, con agiti come il suicidio. È una psicodinamica dettata dal fatto che nella società dell’individualismo e della competizione si creano delle aspettative elevate durante l’infanzia che rischiano di crollare con l’arrivo dell’adolescenza. Questo conflitto può portare l’adolescente a decidere di sparire per sempre, soprattutto se le aspettative deluse in età adolescenziale si percepiscono come ostacoli insormontabili.
Ecco che nel tentativo di suicidio, di solito, prevalgono i sentimenti di vergogna e di colpa per le aspettative tradite. Da qui deriva il concetto di dolore evolutivo: negli ultimi anni il senso di fallimento, percepito con il passaggio adolescenziale, si è alimentato di un’assenza di percezione di futuro. Quindi, se in adolescenza hai tanto futuro davanti, ma vedi che non c’è un luogo di realizzazione del sé, il suicidio è un’opzione che ti viene in mente. La pandemia poi ha esacerbato questi aspetti, che però erano già presenti.
Quindi è scorretto ricondurre il suicidio ad un’unica causa o condizione?
Non solo è scorretto, ma è gravissimo. È una delle massime semplificazioni portate avanti dagli adulti che sono troppo fragili per capire la complessità di queste situazioni. Si tende a ricondurre il suicidio alla pandemia, a una challenge, a episodi di cyberbullismo oppure a un brutto voto a scuola. Questi sono tutti fattori precipitanti, sono elementi che contribuiscono al fenomeno, ma che si collocano dentro un contesto che andrebbe letto con maggiore articolazione.
A volte non solo viene detto che si uccidono per una causa piuttosto che per un’altra, ma anche che si è trattato di un gioco finito male. Questo è un grande tema che meriterebbe attenzione: la rimozione del suicidio. È di una gravità estrema che se un bambino o un adolescente si suicida con un cappio al collo si dica che voleva vivere un gioco che poi è finito male. In questo modo non si fa altro che rimuovere il suicidio. Ma così facendo i ragazzi non parleranno mai dei loro disagi.
Lei ha anche analizzato la trasformazione degli adolescenti negli anni. In particolare, ha definito gli adolescenti di oggi più narcisisti e chiusi in se stessi rispetto al passato.
Questa è una definizione non solo mia. È riconosciuto da tanti anni che ci sia stata una trasformazione dell’adolescenza dall’età edipica, in cui prevaleva la necessità di realizzare se stessi, la propria sessualità e di destituire il valore simbolico dell’adulto, all’età narcisistica. Mentre in passato il problema centrale degli adolescenti era il corpo sessuale e il loro conflitto con gli adulti, oggi il problema è legato ad aspetti come la bellezza e il successo. Così, il corpo degli adolescenti è diventato un megafono del loro dolore e l’attacco al corpo diventa la modalità di esprimere questo disagio. E poi per gli adolescenti di oggi non esiste più la trasgressione. Oggi i ragazzi non sono più attratti neanche dal sesso perché per loro conta più vivere nella mente dell’altro che compenetrare il corpo dell’altro.
E questa trasformazione dall’Edipo al Narciso che conseguenze ha sul pensiero del suicidio?
Le due cose sono legate, fermo restando che anche le persone che hanno attraversato l’adolescenza in epoche diverse tentavano il suicidio. In questi anni, tuttavia, le anticipazioni delle esperienze in infanzia e in preadolescenza, l’iperinvestimento sulla popolarità, l’individualismo e la necessità di avere successo a tutti i costi, hanno contribuito a creare delle aspettative ideali. Quando poi arriva l’adolescenza, se queste aspettative crollano, il corpo diventa la sede dove riversare il proprio dolore e il proprio senso di inadeguatezza. È il corpo che non è bello, è il corpo che non ti piace, è il corpo che non va mai bene. E per questo, negli anni, sono aumentate tutte le forme di manipolazione del corpo: dai piercing ai tatuaggi, che sono diventati normali, al disturbo alimentare, fino all’idea di uccidere il corpo e di farlo sparire, in modo tale da lasciare in vita l’ideale di sé e non la realtà di quello che il corpo rappresentava.
Detto ciò, i suicidi non dipendono solo da questo. C’è anche un aspetto legato alla fragilità degli adulti: i genitori soffrono troppo della sofferenza dei figli e parlare del loro dolore diventa difficile. In questo modo il suicidio è rimosso completamente. Ne derivano una serie di stereotipi da parte degli adulti che non facilitano un clima di dialogo: il primo è che se si parla di suicidio si spingono i ragazzi a farlo. È sbagliatissimo, anzi è il contrario. Un altro grave pregiudizio è pensare che gli adolescenti che tentano il suicidio facciano solo un gesto dimostrativo. Tutte le ricerche ci dicono che il primo tentativo di suicidio può essere non letale, ma se invece di spiegarne le motivazioni viene banalizzato, c’è il rischio che una persona ripeta il gesto. E infatti le ricerche dicono che il più importante fattore di rischio è averlo già tentato. Secondo alcune ricerche, su tutta la popolazione, non solo giovanile, per un suicidio che riesce ci sono circa 20 tentativi di suicidio. Non parlarne significa non solo che il suicidio viene rimosso, ma che vengono rimossi anche i tentativi di suicidio, che sono il più alto fattore di rischio recidiva.
Cogliendo la sua riflessione sul ruolo degli adulti, le chiedo: come è cambiato il rapporto tra genitori e figli?
Il cambiamento della famiglia in Italia è noto. Nella società attuale sia la famiglia che la scuola hanno molti più competitors, ma non possiamo dire che i genitori abbiano qualche colpa del disagio e del malessere che conducono i ragazzi al suicidio. Questa è una società in cui la scuola alimenta un clima competitivo già dalle elementari, in cui c’è molta pressione mediatica, ci sono trasmissioni televisive e l’internet che, in alcuni casi, promuovono sottocultura. Oggi la famiglia e la scuola restano centrali, ma entrambe hanno perso l’esclusiva della proposta di modelli di identificazione, mentre dovrebbero proporre modelli di comportamento che tengano conto di quello che accade intorno ai ragazzi. Gli adulti dovrebbero interrogarsi su questo. Ultimamente accanto ai disturbi della condotta alimentare, che hanno riguardato prevalentemente le ragazze, si sta aggiungendo anche il fenomeno del ritiro sociale maschile. Si tratta dei cosiddetti hikikomori che prima si ritirano da scuola e poi anche dalla società, chiudendosi in casa. Anche questo, come il suicidio, è legato a quella psicodinamica delle aspettative tradite in età adolescenziali
Ci sono differenze di genere nel tentativo di suicidio?
È una questione molto complessa. Si discute del tema in diversi tavoli scientifici, compreso quello voluto dall’Istituto Superiore di Sanità di cui faccio parte. I dati sulla popolazione giovanile ci dicono che i tentativi di suicidio vanno a compimento più per i maschi che per le femmine. Questo dipende da tanti aspetti e uno di questi riguarda la rappresentazione che l’adolescente che tenta il suicidio ha del suo corpo quando verrà ritrovato. Volendo semplificare, si potrebbe dire che le ragazze pensano a un corpo integro, mentre i maschi non si pongono questo problema. Per tale motivo, i maschi ricorrerebbero a modalità immediatamente più letali, mentre le femmine farebbero uso, ad esempio, di farmaci la cui assunzione però consente che ci sia un lasso di tempo per intervenire e poterle salvare.
Per concludere, l’informazione giornalistica può avere un ruolo preventivo?
Io ho fatto parte del gruppo di lavoro istituito dall’Ordine dei giornalisti per la revisione della Carta di Treviso. Nella nuova Carta si fa riferimento al suicidio perché, per quanto riguarda la cronaca, è importante capire come ragionare in certi termini, senza scendere nei particolari. Siccome nella popolazione giovanile i suicidi sono ad alto rischio emulazione, bisogna evitare che la cronaca alimenti questo rischio e per questo l’informazione deve essere ridotta ai minimi termini, non deve ricorrere a toni scandalistici e non deve scendere nei particolari. Ma al di là delle vicende di cronaca, che scatenano attenzione e anche curiosità, il giornalismo potrebbe parlare di suicidio analizzandone aspetti e significati. Questo sarebbe fondamentale visto che in famiglia e a scuola non se ne parla.
Cosimo Giuseppe Pastore
1 marzo 2022