«Hai finito di studiare?»
«No, ma forse per oggi smetto».
[I nomi e i riferimenti utilizzati sono di fantasia]
Luca non ci pensa due volte. Risponde convinto alla domanda di sua madre perché ha paura di tornare indietro. Ha 17 anni e una storia dolorosa alle spalle, che sta metabolizzando grazie a un faticoso lavoro su se stesso. Non ha intenzione di rivivere quei momenti in cui l’ansia era così forte da inchiodarlo alla scrivania per notti intere. «Trascorreva ore e ore sui libri, senza concludere nulla. Soffriva di una forte ansia da prestazione, e io me ne sono accorta poco prima che fosse troppo tardi», racconta la mamma. Tre anni fa ha tentato il suicidio. È uscito di casa senza avvertire nessuno, nel tardo pomeriggio di un giovedì di gennaio. «Io ero in studio, nel bel mezzo di una riunione importante, quando mi squilla il cellulare, leggo il nome di mio figlio sul display e rispondo». “Mamma, sto male”. “Non ce la faccio”. “Non posso”. «Provo a calmarlo, promettendogli che sarei tornata il prima possibile: un quarto d’ora dopo telefono a suo fratello Stefano per chiedergli di controllare come stesse». Ma Luca non c’è. È uscito. La pila di libri aperti sulla scrivania. Il cellulare spento. «Mollo tutto e corro a casa, dove mi aspetta Stefano, per fortuna in quel frangente più lucido di me. Cerchiamo Luca ovunque, suoniamo ai vicini per chiedere se qualcuno lo ha visto. Niente, nessuno sa aiutarci».
A trovarlo, in evidente stato confusionale, è una pattuglia di carabinieri: li ha chiamati lui, dopo aver percorso chilometri al buio, su una statale nei dintorni di una grande città del nord. Voleva essere investito. Voleva chiudere con una quotidianità che gli era diventata insostenibile. «Appena abbiamo ricevuto la telefonata delle forze dell’ordine, io e Stefano ci siamo precipitati nel luogo indicato. Eravamo sconvolti. Ci hanno dirottati nel pronto soccorso più vicino e poi al reparto di Neuropsichiatria infantile». È qui che Luca viene ricoverato. Rimarrà in ospedale per circa tre mesi, circondato dalle attenzioni del gruppo di medici che continueranno a seguirlo anche nel periodo successivo al rientro a casa.
«Mio figlio ha sempre avuto un carattere ansioso. È molto introspettivo, ha sofferto la separazione tra me e mio marito e ha iniziato a manifestare qualche sintomo già ai tempi delle medie. Per questo ci siamo rivolti a una psicologa», continua sua madre. «Studiava tantissimo: ha preparato l’esame di terza media come forse io preparai gli esami più ostici all’Università». Quando si è trattato di scegliere la scuola superiore, Luca non ha avuto dubbi: Liceo scientifico. «Io credo che in quella decisione abbiano pesato un po’ le parole di un suo professore delle medie, che proiettava molte aspettative su di lui». Inizia l’anno scolastico e, nonostante la classe accogliente, si palesano le prime difficoltà – fisiologiche nel passaggio tra i due cicli d’istruzione – ma che a Luca paiono insormontabili. «Forse si è sentito ingabbiato in una situazione che non era la sua, io non lo so, eppure il suo approccio maniacale allo studio era diventato un’abitudine che in alcuni momenti sfociava nell’aggressività». I tentativi della madre di staccarlo dai libri rischiano più volte di trasformarsi in risse. «Era diventato un’altra persona e io le ho provate tutte, ma la situazione è peggiorata di giorno in giorno. Mio figlio non usciva più con gli amici, aveva smesso di fare sport, il suo cellulare era sempre spento».
I weekend trascorsi a studiare, divorato dall’angoscia. Le crisi di panico prima di varcare la soglia della classe. E alcuni insegnanti non particolarmente ricettivi nel comprendere il disagio. «In ospedale Luca seguiva le lezioni ed è riuscito a non perdere l’anno, ma il traguardo più grande è stata la decisione di cambiare scuola». Scelta difficile e sofferta, ponderata nei mesi successivi alla dimissione dal reparto. «Sapevamo che il percorso del ritorno alla vita quotidiana non sarebbe stato una passeggiata. Io avevo molta paura e Luca anche, tanto è vero che nei primi tempi a casa non ci voleva proprio stare». Non si ritorna volentieri in un ambiente dove si è sofferto a tal punto da non volere vivere più.
«Le domande che si fa una madre di fronte a una storia come questa sono tante: è difficile non percepire il tentativo di suicidio di tuo figlio come una sorta di fallimento». La scelta di Luca ha delle ragioni che in parte resteranno imponderabili, e affonda le sue radici in un senso d’inadeguatezza sempre più diffuso: «La società di oggi chiede troppo a questi ragazzi», riflette la mamma di Luca. «Non bisogna sempre essere perfetti, non si può pensare di essere studenti diligenti, figli modello e campioni nello sport. Il rischio che diventi un’ossessione è dietro l’angolo, e per i più sensibili può essere davvero pericoloso. Ma la perfezione non esiste, a maggior ragione a 15 anni». Alleggerire le pressioni che arrivano dalla società, dalla scuola, indirettamente dalla famiglia, è possibile: Luca sta imparando a farlo. Ora sta meglio e il nuovo percorso di studi lo stimola e lo interessa. «Non parla volentieri di ciò che gli è successo, ma non insisto, ci sarà tempo. L’importante è che abbia ritrovato la voglia di vivere».
Chiara Dalmasso
1 marzo 2022